di Corrado Aaron Visaggio
Nel 2010, in un celebre intervento ai Crunchie Awards, Mark Zuckerberg decretò: “Alla gente piace condividere informazioni con gli altri” e aggiunse che la privacy presto avrebbe smesso di essere una regola sociale.
E non aveva tutti i torti, perché, considerato il successo di Facebook, Instagram & co., sembra che a noi piaccia proprio tanto condividere ciò che ci riguarda. Ammettiamolo: raccontare al mondo chi siamo, cosa amiamo, cosa odiamo, che cosa stiamo per mangiare, ci piace, ci piace terribilmente.
Katherine Losse, l’impiegato numero 51 di Facebook ed autrice del libro “The Boy Kings” – che racconta la nascita di Facebook- ha lavorato nel supporto ai clienti di Facebook, prima di diventare il ghost writer di Zuckerberg. Katherine ha raccontato che durante una riunione, Zuckerberg avrebbe detto: “stiamo spingendo il mondo ad essere più aperto e trasparente.”
Questa faccenda della trasparenza non se l’è inventata il nerd più famoso dopo Sheldon Cooper. In un racconto del 1924, We, Yevgeny Zamyatin racconta di un mondo dove un regime dittatoriale impone alla gente di vivere in edifici trasparenti, così che la polizia possa controllare in ogni momento quello che accade ovunque.
L’idea di fondo è che se in una società tutti fossero (costretti ad essere) del tutto trasparenti, non ci sarebbe più alcun tipo di reato o di truffa. Insomma una società senza segreti sarebbe una società più sicura.
Una recente teorizzazione della Società Trasparente la si deve ad Adrian Brin, nel suo saggio del 1998 “The Transparent Society”, (Perseus Books, US), dove ipotizza che la sorveglianza di massa sarà presto resa possibile dalla disponibilità di tecnologie “abilitanti” a basso costo. Il paradosso, dice Brin, è che una società trasparente da un lato garantirebbe maggiore sicurezza, proprio perché si saprebbe tutto di tutti (e quindi sarebbe impossibile commettere un crimine), ma dall’altro esporrebbe tutti a dei rischi, proprio per il fatto che tutti saprebbero tutto di noi.
Il romanzo distopico The Circle di Dave Eggers (2013) riprende le idee di Brin, raccontando la storia di un social network che chiede ai suoi utenti di lasciarsi riprendere ovunque e continuamente da milioni di videocamere, nella convinzione che la trasparenza possa rendere il mondo un posto migliore e più sicuro.
Il motto di questo social network è “Secrets are lies. Sharing is Caring. Privacy is theft”. Ed eccoci arrivati al punto posto da Zuckerberg: il capovolgimento della norma sociale. La privacy non è più vista come un diritto, ma come la negazione di un diritto: il diritto di sapere (tutto).
Ora, al di là di queste suggestioni letterarie, la realtà è che le informazioni su di noi sono diventate una fonte di guadagno in un mercato che ha preso il nome di Surveillance Economy.
Questo mercato vale 156 Miliardi di dollari all’anno, secondo Marc Goodman, (Future Crimes, Corgi Books, 2015) e già alcune aziende si stanno muovendo con una certa celerità per conquistarsi il loro posto al sole, come Acxiom, Epsilon, Datalogix, RapLeaf, Reed Elsevier, BlueKai, Spokeo, e Flurry.
La sola Acxiom Corporation di Little Rock, Arkansas (USA) utilizza più di 23.000 macchine che raccolgono, aggregano, correlano, analizzano più di 50.000 miliardi di transazioni ogni anno. Questa azienda ha raccolto 700 milioni di profili di altrettanti consumatori in tutto il mondo. Ogni profilo contiene tratti specifici quali razza, genere, numero di telefono, indirizzo, lavoro, stipendio, tipo di auto guidata, numero di figli, superficie dell’abitazione, preferenze politiche e sessuali, salute, se si è mancini o destrorsi, se si hanno animali domestici e così via.
Se la privacy sia un diritto o la negazione di un diritto non è ancora chiaro. Quello che è certo è che finché la privacy verrà considerata un diritto, la surveillance economy non potrà sviluppare tutto il suo potenziale.
E stiamo parlando di un mercato estremamente promettente se già adesso, con severissime leggi sulla privacy un po’ ovunque e una scarsa accettazione sociale del “mercato dei dati personali”, Acxiom nel 2014 ha prodotto 676.9 milioni di dollari di profitto mentre Datalogix, rilevata poi da Oracle, 125 milioni di dollari.
A questo punto viene da chiedersi: ma noi alla nostra privacy ci teniamo davvero oppure no? Secondo due ricercatori del Dipartimento di Psicologia di Harvard, Diana Tamir e Jason Mitchell, no. Anzi violare la nostra privacy piace innanzitutto a noi stessi. In un articolo intitolato: “Disclosing information about the self is intrinsically rewarding”, Diana e Jason dimostrano che rivelare agli altri qualcosa di noi stessi attiva gli stessi circuiti neuronali della ricompensa attivati dal cibo e dal sesso.
Ricapitolando: ci sono un bel po’ di interessi economici dietro l’abbattimento del concetto di privacy; noi non è che facciamo poi tutti questi sforzi per difenderla, anzi, siamo noi i primi a violare la nostra privacy disseminando informazioni di ogni natura su noi stessi; infine, c’è persino una suggestione che vorrebbe la privacy un ostacolo ad un mondo più trasparente e quindi più sicuro.
Quindi, ha davvero ragione Zuckerberg? Stiamo per trasformare il diritto alla privacy in diritto alla trasparenza (totale)?